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LA FASE 2 RACCONTATA DA UN'ANALISTA TRANSAZIONALE

Aggiornamento: 10 dic 2020

Durante la quarantena ciascuno si è adattato alla situazione come meglio ha potuto: impasti di pizza, sessioni di workout, notti attaccati ai videogiochi, ore passate a fissare il soffitto della camera da letto per poi raggiungere faticosamente il divano. Con il passare delle settimane si sono andate esaurendo le iniziative collettive e gli spunti propositivi così come il lievito e la farina nei supermercati e lentamente siamo scivolati in una sorta di letargo, guardando il mondo rallentare dalla finestra della cucina, chiusi nelle nostre case. Isolati. Al sicuro.

Adesso con prudenza, distanza e mascherina, si può ritornare gradualmente ad uscire.

I parchi sembrano pieni di persone che corrono, camminano, pedalano. Anche le strade sembrano più affollate. Esplode un bisogno sottovalutato fino ad ora, quello di umanità: guardarsi negli occhi stando in piedi uno di fronte all’altro, parlarsi senza che la connessione diventi scadente, sentire il profumo della persona che ci supera sul marciapiede. Un bisogno di contatto, di relazione e di affetto che è stato trascurato fino ad ora perché nel caos generato della paura di questa terribile pandemia le priorità erano altre e così ci siamo dimenticati che siamo umani. Ora che tocca risvegliarsi da questo torpore, non è per nulla scontato un cambio di abitudini.


Tutto sommato nel nostro bozzolo non stiamo così male: siamo tranquilli, al sicuro, circondati dai nostri oggetti, con i nostri ritmi e con le nostre abitudini… Chi ce lo fa fare di uscire? Alla fine stiamo bene così: senza bisogno di vedere altre persone, di tornare in ufficio, di riprendere le nostre attività. Senza accorgercene ci siamo abituati all’isolamento.

È vero che siamo sopravvissuti a questa lunga quarantena senza prendere a martellate i vicini e senza vedere unicorni solcare i cieli della città.

È vero che siamo vivi anche chiusi tra le mura di casa.

Eppure siamo umani: abbiamo bisogno anche dei nostri colleghi, dei nostri affetti, di stare insieme ad altre persone.

Non si tratta di un capriccio, di uno sfizio, di un sintomo di debolezza -perchè invece sono forte se riesco a stare tantissimo da solo: è proprio necessario. Tanto quanto un flacone di Amuchina per intenderci al volo. Siamo stati privati per così tanto tempo della nostra umanità, che ora ci sembra di essere diventati degli oggetti inanimati a cui basta mangiare, lavorare dal tavolo della cucina e dormire qualche ora. È un inganno della nostra mente: i nostri occhi e il nostro cuore sono sotto un incantesimo molto potente che fa sembrare i nostri pensieri maledettamente veri e che continua a confermarci che siamo dei lupi solitari. Questo accade perché possiamo vedere solo la nostra realtà, siamo soli con i nostri pensieri da troppo tempo ormai. Abbiamo bisogno di tornare a vivere gli altri.


È come se ci fosse una forza invisibile che ci trattiene all’interno delle mura di casa. Lo sforzo necessario per vincerla (qui sì che bisogna essere forti!) ricorda un po’ quel momento in cui vediamo un bambino che cade dalla bicicletta. Una parte di noi vorrebbe abbracciarlo, dargli un bacio sul ginocchio e chiudere la bici in cantina fino a quando non vorrà riprovarci. L’altra parte di noi sa che bisogna farlo risalire in sella adesso, altrimenti la sua paura diventerà grandissima, sarà alimentata dai ricordi un po’ distorti di quel pomeriggio di mezza estate e sarà veramente dura riuscire a pedalare di nuovo.

Questo è il momento in cui bisogna fare affidamento sul nostro Genitore interno: saprà ascoltare la nostra paura di incontrare l’altro, ci farà una carezza e ci rimetterà in sella.

Anche se ci sembra inutile, anche se non sentiamo niente, anche se non ne abbiamo proprio nessuna voglia.


Ora si pedala.



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